giovedì

La fioritura del cero pasquale: esulta il cielo e gioisce la terra.



RUBRICA a cura di Don Danilo Priori

L’amore per il luogo in cui celebriamo il Signore Risorto è come un fuoco che consuma (Gv 2,17), è passione che unisce fratelli e sorelle nel comune scopo di partecipare alla Bellezza mediante i santi misteri ; se volessimo usare parole più semplici potremmo dire che tutto l’entusiasmo e tutta la cura con cui prepariamo la sala del banchetto sono finalizzati a rendere unico il vissuto celebrativo delle nostre comunità parrocchiali, affinché ciascuno possa condividere l’esperienza del “discepolo amato” e parlare di ciò che abbiamo visto e udito, “così sarete uniti a noi nella comunione che abbiamo con il Padre e con Gesù Cristo suo Figlio” (1Gv 1,1-4) .
Queste poche battute già dicono - se mai ce ne fosse ancora bisogno - quanto sia importante rivalutare e ri-significare i vari linguaggi usati dalla liturgia. Più volte abbiamo sottolineato come, ancora prima di accogliere l’ingresso del celebrante, tutta la nostra persona è immersa in uno spazio particolare e comincia a cogliere con i sensi immagini, colori, odori, suoni e silenzi che rimandano ad un evento straordinario. Il tempo di Pasqua poi, nell’economia dell’anno liturgico, certamente si caratterizza anche per la presenza di modalità espressive e simbolismi che ne esprimono la centralità e l’unicità; tra questi merita tutta la nostra attenzione il cero pasquale quale elemento che forse meglio sintetizza i temi del tempo pasquale. E’ ovvio che stiamo parlando del vero cero pasquale, quello fatto di cera d’api, quello profumato e preziosamente decorato, quello nuovo che dice la novità dell’Alleanza instaurata dal Cristo; non certo dei tubi di plastica che non si consumano, quelli che puzzano di vecchio e portano sui margini i segni delle calcomanie che anno dopo anno vengono tolte e riappiccicate. Come possiamo inaugurare i cieli nuovi e la terra nuova se poi scegliamo come simbolo della nuova luce uno stantivo cilindro di plastica? Come accendere in noi il desiderio della patria celeste se invece di attingere dal fuoco nuovo ci accontentiamo di un triste accendino? Perché cantare nel preconio pasquale la preziosità del cero quale frutto del lavoro delle api se il cero sul quale arde la fiamma non si consuma? Perché celebrare il memoriale dell’esodo se alla colonna di fuoco togliamo il suo splendore?
La comune esperienza insegna che non bisogna girare molto per imbattersi in certe realtà; sia ben chiaro, questa non vuole essere una critica verso le comunità parrocchiali meno attente ai segni liturgici: ne conosciamo e ne comprendiamo le motivazioni, ma non possiamo condividerle. Lo svilimento del linguaggio liturgico corrisponde all’impoverimento arbitrario del dialogo col Signore, la mortificazione del segno induce all’annacquamento della relazione con Lui.
Il cero pasquale accompagna tutta la nostra esistenza terrena e illumina il varco della beata speranza: alla luce del cero pasquale veniamo immersi nella morte e resurrezione di Cristo mediante il battesimo; alla luce del cero pasquale la comunità parrocchiale celebra la nostra nascita in cielo. Quel cero pasquale rinvia alla presenza di Cristo, da Lui ci lasciamo animare e illuminare, per Lui intendiamo ardere, a Lui aneliamo associarci in eterno. Ecco perché vibriamo di pura emozione quando il sacerdote durante la “madre di tutte le veglie” si appresta al fuoco nuovo e dissipa le tenebre della morte con la fiamma viva della gloria; ecco perché sospiriamo speranzosi quando incide con lo stilo la cera profumata medicandoci nelle piaghe di Cristo; ecco perché sussultiamo soddisfatti quando eleva la luce del mondo verso la patria celeste dove il Padre ci attende; ecco perché partecipiamo festanti all’annuncio di Colui che illumina trionfante la salvezza del nuovo Israele; ecco perché ci immergiamo con fede nell’acqua fecondata dallo Spirito, sconfiggendo il buio per sempre.
Pur associando alla simbologia del cero pasquale una così profonda riflessione teologica, vogliamo aggiungere una modalità espressiva: quella floreale. Sappiamo che il cero - soprattutto in quelle comunità i cui pastori hanno a cuore la formazione biblica e liturgica dei fedeli - parla da sé; tuttavia siamo altrettanto convinti della significatività del linguaggio floreale nella liturgia: i fiori, quando predisposti nel pieno rispetto degli spazi liturgici e della celebrazione, si affermano anch’essi come annunciatori dei divini misteri o quanto meno come voci ausiliarie dell’evento celebrato. In questa sede proponiamo tre diverse composizioni con cui fiorire il cero pasquale, fornendo alcune indicazioni di massima che possono ritenersi valide in ogni caso:
- Sui fiori. La Pasqua è immediatamente associata alla primavera, alla vita che esplode dopo il lungo letargo invernale. Orientarsi per i fiori di stagione rappresenta una scelta saggia e coerente, considerando anche l’ampia offerta di questo periodo e la possibilità di acquistare a buon mercato; ripiegare su costosissimi fiori esotici o fuori stagione sarebbe una contraddizione in termini: l’unico prezzo pagato è il sangue di Cristo e la sua offerta è fondata sull’amore gratuito a cui ci chiede di aderire nella semplicità e nella povertà. Meglio dunque quegli splendidi mazzi di ranuncoli, anemoni, fresie, narcisi, giacinti e quant’altro la natura offre, ben vengano anche i rami fioriti come ad esempio il pesco e il mandorlo.
- Sui colori. La liturgia esprime la solennità mediante il bianco, a cui associare la luce del giallo; la complessità e la profondità dell’evento celebrato ci inducono però ad apprezzare anche scelte diverse:
a) un’esplosione di colori davvero comunica tutta la gioia pasquale e il clima festoso che pervade la Chiesa ;
b) una gradazione sui toni del rosso sino al giallo-bianco sembra riproporre in chiave cromatica il mistero della passione, morte e resurrezione ;
c) una scelta monotematica di girasoli indica la propensione verso la stella che non conosce tramonto .
- Sull’armonia. Qualunque scelta floreale deve comunque conciliarsi con lo stile e i colori dei paramenti e dei vasi sacri, con l’architettura della chiesa, con la decorazione del cero, la disposizione delle luci e le restanti fioriture.
La fioritura orizzontale: una scelta “ecclesiale”. Valorizzando l’estensione verticale del cero pasquale, segno del legame tra il singolo battezzato e Cristo innalzato, possiamo incrociare questa linea con una fioritura orizzontale, segno stavolta del vincolo tra la Chiesa e il suo Sposo. Il risultato è una croce profumata e colorata, una fioritura semplice ed essenziale .
La fioritura obliqua: una scelta “spirituale”. Sempre incrociando la verticalità del cero, una composizione obliqua traccia un cammino che sembra squarciare lo spazio di nuova luce. Si tratta di una scelta tecnicamente impegnativa ma raffinata: la vista coglie una linea fiorita obliqua, quasi sospesa, che segna un dialogo tra la divina Trinità e l’umanità redenta.
La fioritura verticale: una scelta “radicale”. Il supporto del cero può offrire la base per il fissaggio di una composizione (di forma verticale o sinuosa) che sale verso l’alto, quasi a voler abbracciare il Risorto. È una soluzione decisamente semplice che lascia ampio spazio alla creatività personale e sembra esprimere il nostro radicamento a Cristo mediante l’adesione al progetto di salvezza.
Qualunque sia la nostra scelta e la nostra abilità nel fiorire gli spazi liturgici dobbiamo semplicemente ricordare che svolgiamo un umile servizio: il vero e unico protagonista è Cristo Gesù, colui che è Risorto. Davvero!

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