Il centro della parabola è la rivelazione del cuore di Dio; al suo volto dobbiamo guardare, non ai peccati diversi ed equivalenti dei due figli.
Il prodigo è storia di umanità decaduta eppure incamminata, dissacrata eppure con dentro la nostalgia di Dio. Se ne va, un giorno, il giovane, in cerca di felicità: crede di trovarla nelle cose e nel piacere. Ciò che trova invece è una diminuzione di umanità: il libero ribelle è diventato servo, ridotto a contendere le ghiande ai porci, a morire di fame. Così è il peccato: tutto ciò che fa diminuire la nostra umanità. Eppure anche nell'ultimo naufragio rimane un santuario di nobiltà: «Allora rientrò in se stesso», convertendosi a sé più che al padre. Ma nel fondo di se stesso il figlio trova due forze: un desiderio di vita («Io qui muoio!») e l'immagine del padre. Solo chi cerca la vita troverà Dio. E, viceversa, si può dire che soltanto chi cerca davvero Dio troverà la pienezza della vita. Ed è così cheINIZIA IL VIAGGIO. Non torna per amore, torna per fame. Non per pentimento, ma perché la morte ormai gli cammina a fianco. Cercava un buon padrone, non osava ancora, non osava più cercare un padre: «Trattami come un servo». Cercava vita, troverà Dio. «Il padre lo vide da lontano, commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». E interrompe i discorsi che il figlio aveva preparato, il suo proposito di tornare come servo. Lo interrompe, per convertirlo proprio da quell'idea. Il padre è stanco di avere dei servi invece che dei figli. Almeno il lontano che torna gli sia figlio. Il peccato dell'uomo è di essere schiavo invece che figlio di Dio (S. Fausti). «Presto, dice, anello, abiti, un banchetto, una festa!». Il centro della parabola è la rivelazione del cuore del Padre; al suo volto dobbiamo guardare, non ai peccati diversi ed equivalenti dei due figli. A lui non interessa condannare e neppure assolvere, non interessa giudicare o pareggiare i conti, ma esprimere un amore esultante, indistruttibile, incondizionato. Dio è esclusivamente amore. Il figlio maggiore torna dai campi, vede ed entra in crisi. Non riesce ad accettare come fratello quel dissoluto («Questo tuo figlio», dirà), non accetta un padre che fa festa al figlio ribelle (infatti mai lo chiama: «Padre»). Io ho sempre ubbidito, ho osservato tutti i tuoi comandi, e a me neanche un capretto! È l'uomo dei rimpianti, onesto e infelice, che ha perso la gioia di vivere: non ama quello che fa', lo subisce, e il cuore è assente. Quanti cristiani sono così, onesti e infelici, i «cristiani del capretto» (Turoldo): sono stato bravo, cosa me ne verrà in cambio? Vivono da salariati e non da figli. Ma l'amore del padre non è commisurato ai meriti dei figli, sarebbe amore mercenario. Non si misura su di un capretto. Non c'è nessun capretto, c'è molto di più: «Tutto ciò che è mio è tuo».
commento prelevato da http://www.qumran2.net/
Nessun commento:
Posta un commento